Catullo, Lesbia e le regole del trombamico

Trombamico, amico di letto, scopamico.

Tanti sinonimi per significare il medesimo concetto: uno/a con cui vai a letto con una certa frequenza ma con il/la quale non ti fidanzi o comunque non hai una storia “seria”.

Tutti abbiamo avuto il trombamico almeno una volta nella vita, ammettiamolo, e tutti conosciamo di conseguenza le regole della trombamicizia che, come quelle del Fight Club, sono semplici e cristalline:

  1. Si scopa e basta
  2. Si scopa e basta (bisogna ripeterlo perché nei film poi succede sempre che gli amici di letto si innamorino…puttanate. Ricordatevi che sono solo film, e che certo, le eccezioni esistono, ma noi baciati dalla sfiga siamo la regola, non l’eccezione)
  3. Ci si sente solo per concordare i trombappuntamenti
  4. Non ci si innamora (vedi regola n.2)

Per quanto mi riguarda, lungi da me giudicare qualsiasi tipo di rapporto; dico solo che alla veneranda età di 38 anni a me i trombamici non interessano più. Piuttosto mi compro un vibratore o comunque grazie, faccio da sola.

Ma lo sapete chi è il primo trombamico nella storia della letteratura?

Ovviamente il povero Catullo, quello di Odi et amo quare id faciam fortasse requiris eccetera eccetera, il poeta latino più amato da tutti noi studenti, anche perché, ragazzi…come si fa a non immedesimarsi nella sfiga amorosa di questo disgraziato, tra l’altro povero in canna, che prende continuamente palate di merda da quella stronza di Lesbia?

La storia trombamorosa tra i due è facilmente desumibile dalle poesie lasciateci dallo stesso Catullo, e raccolte nel cosiddetto Liber Catullianum.

Dalle fonti storiche sappiamo che Lesbia è uno pseudonimo ispirato alla celebre poetessa greca Saffo, originaria dell’isola di Lesbo, e creato ad hoc in modo da proteggere quella che in realtà era una ricchissima e influente esponente dell’aristocrazia del tempo: una di quelle che contavano, insomma.

Bisogna ammettere che la storia dello pseudonimo non è servita a un cazzo, dato che chiunque, allora come ora, conosceva la vera identità di Lesbia, una certa Clodia Pulcra, sorella del tribuno Publio Clodio (Clodio chi? Ma come Clodio chi? Clodio, quello che faceva il tribuno. Capito?).

Uff. Devo sempre spiegarvi tutto.

Comunque.

Il giovane Catullo da Verona con furore giunge a Roma, e qui appunto s’imbatte nella bellissima, danarosissima, stronzissima Clodia.

Nasce una rovente storia d’amore, anzi, di tromb-amore. Peccato che Catullo non abbia ben capito fin dall’inizio quali siano le regole del trombamico, o forse Lesbia/Clodia non gliele ha spiegate come si deve, ma tant’è.

Fatto sta che il nostro poeta casca nella tromba-rete e si innamora come un tredicenne, dando poi subito sfogo alla cascata di emozioni che lo investe con i seguenti versi:

da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus 
[…]

La traduzione è abbastanza semplice (niente a che vedere con quel logorroico di Cicerone che per spiegare un concetto usava tremila subordinate e non conosceva l’importanza del punto):

Dammi mille baci, poi altri cento, poi altri mille, poi altri cento, poi ancora mille, poi altri cento, poi quando ce ne saremo dati a migliaia li confonderemo per non sapere quanti sono.

Eh, caro il mio Catullo, lasciatelo dire da una che sull’argomento è abbastanza corazzata: sei-nella-merda. Quando si comincia a vaneggiare di baci a raffica e di confusioni varie, gira male, soprattutto se l’amoroso delirio è univoco.

Già, perché tu a Lesbia non piacevi abbastanza, questa è l’amara verità. Si, ok, ogni tanto le faceva piacere una trombatina random, mille baci e poi altri cento, poi altri mille e altri cento, un po’ di sana palestra, qualche coccola, ma ahimè, finiva lì.

Fortunatamente Catullo si rende conto in tempo di correre il rischio di trasformarsi in un tappeto con tanto di scritta “Benvenuto, calpestami pure” al centro della fronte, e corre ai ripari…

Naaaaa, manco per un cazzo.

A onor del vero, la scritta sulla catulliana fronte è questa:

“Benvenuto, calpestami pure e all’occorrenza usami come carta igienica”.

Lesbia/Clodia ha il coltello dalla parte del manico, si gira e si rigira il povero Catullo come un calzino e lui continua a soffrire e a incassare merda come se piovesse:

Quis nunc te adibis? Cui videberis bella?
Quem nunc amabis? Cuius esse diceris?
Quem basiabis? Cui labella mordebis?

Da chi ora te ne andrai? A chi parrai bella?
Chi ora amerai? Di chi si dirà che tu sei?
Chi bacerai? A chi morderai le labbra?

Belle domande.

Datti anche una risposta, magari, che dici?

Poi non è che il poeta sia completamente privo di dignità, ogni tanto realizza la sfiga e reagisce in maniera, come dire, colorita:

Adeste, Endecasyllabì, quot estis
omnes undique, quotquot estis omnes.
Iocum me putat esse moecha turpis,
et negat mihi nostra reddituram
pugillaria, sì pati potestis.

Vi chiamo a raccolta, endecasillabi, quanti siete
tutti da ogni parte, quanti siete tutti.
Una brutta puttana mi crede essere uno zimbello,
e rifiuta di restituirmi le nostre
corrispondenze, (se potete sopportarlo).

E che cazzum! Rendimi le corrispondenze, stronzam maledettam!

Ma come spesso succede in queste situazioni, l’anello debole soccombe, e l’anello debole non era di sicuro Lesbia, la quale si divertiva a giocare il gioco del tira e molla. Inutile specificarlo, quando lei tirava, Catullo si faceva tirare, poi si faceva mollare, poi tirare di nuovo e via dicendo.

La paranoia amorosa raggiunge livelli altissimi, e il nostro poeta butta giù due righe:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse ti chiederai come sia possibile.
Non lo so, ma sento che accade e mi tormento.

Eh caro mio. Brutta situazione. Ci ubriachiamo?

Va beh.

Con l’andar del tempo, tuttavia, Catullo acquisisce una sorta di malinconica consapevolezza, realizza di essere soltanto un trombamico per Lesbia e si sfoga così poetando:

Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
“Qui potis est”, inquis? Quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus
.

Una volta dicevi di amare solo Catullo,
o Lesbia, e di non volere nemmeno Giove al mio posto.
Allora ti amai, non solo come la gente ama l’amica,
ma come il padre ama i suoi figli e i suoi generi.
Ora ti conosco, e anche se brucio più ardentemente,
tuttavia per me sei molto più spregevole e insignificante.
“Come è possibile?”, chiedi. Perché una tale offesa costringe
l’amante ad amare di più, ma a volere meno bene.

E vaffanculum.

Ordunque, questa era la storia di Catullo e Lesbia, e chissà, se il nostro poeta avesse conosciuto in anticipo le regole del trombamico, forse si sarebbe potuto risparmiare un bel po’ di seghe mentali…ma del resto allora non ci avrebbe lasciato questi bellissimi versi, vediamo il lato positivo.

Fortuna che Cicerone non è stato sfigato in amore, altrimenti ci avrebbe frantumato i coglioni scrivendo anche il

De trombamicitia

Per carità!

Ora vi lascio, ma mi raccomando: ripassate le tromba-regole (specialmente la prima e la seconda) e beccatevi un altro po’ di poesia:

Lesbia mi dicit semper male nec tacet umquam
de me: Lesbia me dispeream nisi amat.
quo signo? quia sunt totidem mea: deprecor illam
assidue, verum dispeream nisi amo.

Lesbia sparla sempre di me, e non tace mai: possa io morire se Lesbia non mi ama.
Come lo so? Perché sono come lei: la copro ogni giorno
d’insulti, ma possa io morire se non l’amo.

Ave!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4 pensieri su “Catullo, Lesbia e le regole del trombamico

  1. “De trombamicitia” è una genialata delle tue! Tutto dannatamente giustissimo, ma dissento solo una cosa: il trombamico non passa mai di moda… Ce ne fossero! È che la trombamicizia perfetta è rara quasi quanto l’amicizia perfetta, il che complica le cose, anche perché rispettare le regole è dura, durissima. Siamo un po’ tutti Catullo o, come dicevano gli Elii, servi della gleba.

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