Incredibile quante scoperte si possono fare grazie a un romanzo. Di recente infatti ho letto “Papà Gambalunga”, di Jean Webster, e ho trovato un brevissimo cenno alla vita altamente spericolata di un certo Benvenuto Cellini che, a dire il vero, dopo essermi documentata e come avrete modo di constatare voi stessi, probabilmente non era “benvenuto” da nessuna parte…a meno che nell’Italia del 1500 tra una bottega e l’altra non esistessero dei tuguri adibiti a “Fight Club”: lì non solo Cellini sarebbe stato il benvenuto, gli avrebbero steso un tappeto di petali rossi.
Vediamo subito perché.
Il protagonista del post odierno è stato uno scrittore, nonché orafo, nonché scultore di un certo peso (suo il “Perseo con testa di Medusa”, quella modesta statuina ubicata in quel di Piazza della Signoria a Firenze, così, tanto per dirne una) e insomma, parliamo di una delle più geniali menti artistiche partorite dalla nostra patria in età pre-salviniana.

Si sa, i geni spesso sono un po’ pazzi, o comunque hanno un caratteraccio (uno di questi giorni ci diletteremo magari con l’elenco di tutti i tentati omicidi di Caravaggio), e il Cellini non faceva eccezione a questa regola.
N.B.: il mio resoconto verrà intervallato da frasi tratte dalla “Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze”, un’autobiografia che in diversi punti è un tantino autocelebrativa ma insomma, direi che ci può stare.
Nato nel 1500 a Firenze, Benvenuto è figlio di Elisabetta Granacci e Giovanni Cellini, un musicista che sapeva “sonare molto bene di viola e di flauto” e che avrebbe tanto desiderato avviare alla stessa professione il rampollo, ma niente da fare: il ragazzo crescendo matura infatti ben altre doti e desideri.
Fin da piccolo Cellini dimostra una grinta e uno sprezzo del pericolo che pochi infanti (a parte il mitico Ercole-strozza-serpenti-nella-culla) possono vantare: a 3 anni, gattonando qua e là, sotto un mobile intravede nientemeno che uno scorpione e lo acchiappa al volo, precipitandosi poi tutto contento dal nonno:
“Vedi nonno, il mio bel granchiolino!”
Al povero vecchio per poco non viene un ictus. Nonostante stia iperventilando, tenta di convincere il nipote a mollare il “granchiolino”, ma Benvenuto non ne vuole proprio sapere e continua a stringere l’animale tra le dita. Fortunatamente, messo in allarme dal trambusto, arriva il padre Giovanni armato di forbici, che taglia bocca e coda dello scorpione, non prima però di aver defibrillato il nonno mezzo infartato.
Benvenuto cresce vigoroso, audace e con un debole per risse, zuffe e baruffe varie, cosa per la quale viene spesso e volentieri esiliato. La prima cacciata risale all’adolescenza: a quindici anni il giovane si trova casualmente di passaggio in una strada dove Cecchino, il fratello tredicenne teppista (buon sangue non mente e poi, con un nome così…) “si era disfidato con un garzone di venti anni in circa con le spade in mano”. Ottima idea, dare inizio ad una scazzottata con uno più grande di te di sette anni spada-dotato. A un certo punto, come se già il povero Cecchino non navigasse in un mare di merda, sopraggiungono gli amici del suddetto garzone, che “messono mano a molte frombole” colpiscono il ragazzo, il quale va subito K.O. Benvenuto si trasforma all’istante in Bruce Willis, agguanta una spada e si mette davanti al corpo del fratello “contra parecchi spade e molti sassi”, pronto a dar battaglia e per niente intimorito dal fatto di essere, come dire, in lieve svantaggio numerico.
Lo spargimento di sangue viene scongiurato dall’arrivo di un gruppo di soldati che “scamporno” Benvenuto “da quella gran furia, molto maravigliandosi che in tanta giovinezza fussi tanto gran valore.”…parafrasando in italiano approssimativo, uno degli sbirri gli aveva detto: “Senti, specie di mini-Rambo, non vedi che tu sei solo e loro sono venticinque? Torna a casa a guardare l’Uomo Tigre.” Ma Cellini evidentemente l’aveva preso come un complimento.
In seguito a questo episodio, l’artista si sposta tra Roma, Siena e Firenze, “attendendo a l’arte de l’orefice” presso diversi artigiani di gran fama e cambiando città ogni volta che la situazione si faceva pesante, e per “pesante” intendo circostanze tipo questa:
Nel 1523 è di nuovo a Firenze, alle dipendenze di un certo Giambattista Sogliani. Tutto fila liscio finché un bel giorno il nostro amico viene agganciato da Gherardo Guasconti, esponente di una famiglia di orafi con la quale i rapporti non erano propriamente idilliaci. Parte una discussione che ben presto degenera, non nel senso che i due si mettono a urlare e poi si mandano affanculo, no, in quell’altro senso, quello tarantiniano. Il Guasconti infatti tira un mattone addosso al Cellini: un invito a nozze per il nostro eroe il quale risponde prontamente con “sì grande pugno in una tempia” che quello “cadde come morto”. Da qui in poi assistiamo a una scena degna di un action movie vecchia maniera, di quelli molto tamarri dove Nicholas Cage viene beccato da una pallottola e quando gli si fa notare che sta sanguinando lui risponde: “No, non ho tempo.”. Sì, lo so, siete strabiliati dalla mia cultura cinematografica. Giuro che ho visto anche Casablanca e La Corazzata Potëmkin. No, non è vero, solo Casablanca. Sulla Corazzata mi ha scoraggiata Fantozzi.
Scoppia quindi la viuuulenza e sentiamo come lo stesso Benvenuto descrive il fattaccio:
“Di poi voltomi ai sua cugini” (perché raramente Cellini si azzuffava se non si trovava in minoranza numerica, non c’era gusto) “dissi: -Così si trattano i ladri poltroni vostri pari-: e volendo lor fare alcuna dimostrazione, perché assai erano (…) messi mano a un piccol coltello che io avevo ” (così, casualmente, ma che curiosa coincidenza), “dicendo: -Chi di voi esca dalla sua bottega, l’altro corra per il confessoro, perché il medico non ci arà che fare!-“
Della serie: se qualcuno si azzarda a uscire è un uomo morto…gli lascio giusto il tempo di confessarsi!
Risultato della minaccia?
“Furno le parole a loro di tanto spavento, che nessuno si mosse a l’aiuto del cugino.”
Respect.
Risultato della rissa?
Condanna a morte in contumacia e un’avvincente puntata di Quarto Grado sull’incidente. Benvenuto si guarda bene dal farsi rinchiudere in prigione e scappa a Roma, dove entra al servizio di papa Clemente VII in qualità di “sonatore di cornetto”. Nel 1527 nella capitale arrivano i Lanzichenecchi (sì, quelli nominati nei Promessi Sposi) e Benvenuto poco ci manca che stappi una bottiglia di champagne tanta è la contentezza al pensiero di tutta quella gente da ammazzare. Rifugiatosi insieme al papa all’interno di Castel Sant’Angelo, non rimane certo con le mani in mano, e mirando col suo archibugio in mezzo al “tumulto istraordinario” degli assedianti, spara e becca nientepopodimeno che il loro comandante, Carlo III di Borbone; dopodiché elimina una vagonata di nemici con la benedizione di cardinali e signori vari che osservano rapiti quella specie di cazzutissimo Avenger in preda ad una autentica furia omicida. Venuta la sera, alla festa si unisce anche il capitano dei bombardieri, tal Antonio Santa Croce, che subito si avvicina da Benvenuto per dargli il cinque e chiedergli che “in quel modo che aveva cominciato, seguitasse”. Vistosi incoraggiato (non che ce ne fosse bisogno, eh), Cellini continua a “tirare le sue artiglierie, e con esse facendo ognindì qualche cosa notabilissima.(…) Non passava mai giorno che io non ammazzassi qualcun degli inimici di fuora.” Pare che il Papa ne fosse parecchio contento, perché tra un’uccisione e l’altra trova il tempo per “perdonare” a Benvenuto “tutti gli omicidii che aveva mai fatti” e tutti quelli che avrebbe commesso in futuro “in servizio della Chiesa appostolica.” Clemente di nome e di fatto.
In seguito alle suddette vicende belliche, Benvenuto ritorna alla sua noiosa vita: casa-lavoro-scazzottata quotidiana e poi di nuovo lavoro-casa-lavoro-scazzottata quotidiana-casa. Certo, ogni tanto ci scappava il morto, motivo per il quale Cellini doveva spesso cambiare domicilio: tra Roma, Napoli, Firenze e Parigi i funerali non si contavano più, ma c’è da dire che l’artista riusciva a cavarsela sempre con punizioni relativamente blande…alla peggio infatti si beccava qualche anno di carcere, ma gli davano subito i domiciliari, probabilmente perché avevano paura che in prigione accoppasse tutte le guardie e i colleghi-carcerati.
Cellini muore a Firenze nel 1571 e i becchini finalmente riescono ad andare in ferie. Vi lascio col solito aforisma ad hoc, che Benvenuto dixit sicuramente con cognizione di causa:
“Un pazzo ne fa cento.”
Il prossimo post sarà sul terzo canto della Divina Commedia, quindi “stay tuned” come dicono gli influencer: