La Divina Commedia Approssimativa, Inferno, Canto V: Paolo, Francesca e gli svenimenti strategici di Dante

Nell’ultimo post avevamo lasciato Dante alle prese con gli sguardi feroci di Caronte, le risposte acide di Virgilio e un improvviso terremoto infernale: per il poeta è davvero troppo da sopportare, e un po’ per la fame, un po’ per la pressione bassa (all’Inferno fa caldo, Antò), un po’ perché si trova nell’Oltretomba da meno di mezz’ora ma ne ha già le palle piene, sviene, sperando che lo credano morto in modo tale da battersela il più velocemente possibile.

Sfortunatamente gli gira male, e nel quarto canto si risveglia sull’altra riva dell’Acheronte. Zio Virgilio, che nel frattempo ha perso tutta la grinta sfoggiata in precedenza, lo accompagna verso il primo cerchio infernale, il Limbo, dove risiedono “le anime che non poterono salvarsi sia perché vissero prima o fuori del cristianesimo, sia perché morirono avanti di esser battezzate” (cit., ovviamente, Sapegno). Quindi c’è un bel po’ di gente, specialmente artisti, scrittori e autorevoli colleghi di Dante, tipo Orazio, Omero, Ovidio, e lo stesso Virgilio, che quando non fa il tour operator vive lì in pianta stabile.

Dal Limbo passiamo direttamente a uno dei canti più celebri di tutto il poema, il quinto, quello che tratta principalmente la sventurata love story tra Paolo e Francesca.

Ci troviamo nel secondo cerchio infernale, all’ingresso del quale sta appollaiato Minosse (ve lo ricordate? Il mitico re di Creta la cui moglie se la faceva con un toro), che non è propriamente di buonumore:

“Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:/esamina le colpe ne l’intrata;/giudica e manda secondo ch’avvinghia.”

In pratica il suo ruolo è quello di receptionist: arrivano le anime dei defunti, lui chiede che peccati hanno commesso e dopo attenta riflessione le spedisce nel corrispondente girone:

“Comecome? Ti piaceva ingolfarti di carboidrati? Tiè, vai nel terzo cerchio a rotolarti nel fango. E tu, tu facevi gli oroscopi? Sali all’ottavo cerchio e cammina all’indietro come Michael Jackson.”

Non appena vede Dante, Minosse sbuffa e pensa: “Che palle, l’ennesimo turista del cazzo che chiede informazioni” e subito lo mette in guardia:

“O tu che vieni al doloroso ospizio/lasciando l’atto di cotanto offizio,/guarda com’entri e di cui ti fide

Della serie: non vedi che sto lavorando, lasciami in pace e stai attento che l’Inferno è peggio di The walking dead, non ti puoi fidare di nessuno.

Dante ci rimane male, ma zio Virgilio ripesca dal manuale “Non rompetemi i coglioni”  il capitolo 2: “Come mandare affanculo in endecasillabi con rima incatenata” e zittisce Minosse così come aveva fatto già con Caronte:

“Perché pur gride?/Non impedir lo suo fatale andare:/vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole, e più non dimandare.”

Non c’è bisogno di parafrasare, giusto?

Una volta sbarazzatisi di Minosse, Dante e Virgilio proseguono. Il secondo cerchio è quello nel quale dimorano i lussuriosi, anime sventurate, “donne antiche e cavalieri che morirono per forza d’amore”. Per punizione questi poveracci sono sottoposti a continue bufere di vento furioso che li sbatte da una parte all’altra senza sosta. Dante, ancora mezzo scioccato dalla pessima accoglienza di Minosse, si ritrova in mezzo a una burrasca e a defunti che volano e, temendo che non gli caghino in testa come i piccioni, si affretta a chiedere delucidazioni a zio Virgilio:

“Maestro, chi son quelle/genti che l’aura nera sì castiga?”

Il poeta latino, manco fosse a un party, inizia ad elencare alcuni vip dell’antichità: c’è Cleopatra, Elena, Paride, Achille, Didone, e un posto d’onore per Pamela Prati che si è lasciata trasportare talmente tanto dalla passione da non capire di essere innamorata di un fantasma. Dante ne rimane turbato, sta per formulare una terzina su Mark Caltagirone ma viene distratto da due anime che si abbandonano al vento senza opporre alcuna resistenza:

“Poeta, volentieri/parlerei a quei due che ‘nsieme vanno/e paion sì al vento esser leggieri.”

Quei due, per la precisione, sono Francesca da Rimini e Paolo Malatesta: lei era stata costretta a un matrimonio “politico” col fratello di lui, Gianciotto, un “rustico uomo, zoppo e deforme”, quindi insomma, non proprio il principe azzurro. Col cognato invece, assai più carino e gentile, era presto nato l’amore… certo detta così, in maniera approssimativa, la storia non rende, quindi sentiamo come la racconta la stessa Francesca.

Quando il vento porta le anime verso la sua direzione, Dante le chiama:

“O anime affannate,/venite a noi parlar, s’altri nol niega!”

Quelli non si fanno pregare, finalmente qualcuno che si degni di intervistarli:

“O animal grazioso e benigno (…)/ di quel che udire e che parlar vi piace,/noi udiremo e parleremo a voi.”

Ma non aspettano nessuna domanda, talmente tanta è la voglia di chiacchierare con uno che non è morto. Difatti Francesca comincia a narrare la sua tragica storia, preparate i fazzoletti:

“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,/prese costui de la bella persona/che mi fu tolta; e’l modo ancor m’offende./Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte,/che, come vedi, ancor non m’abbandona./Amor condusse noi ad una morte./Caina attende chi a vita ci spense.”

Amore, amore, amore. Al cuor non si comanda, questo il succo approssimativo dei versi danteschi. Ovviamente gli studiosi hanno dibattuto a fondo, molto a fondo, su ogni sillaba di queste terzine…per esempio la frase “e ‘l modo ancor m’offende”: da cosa è offesa Francesca? Da come le fu poi tolto Paolo o dal modo, dall’eccessivo fervore col quale si innamorò del cognato? O da entrambe le cose? Ma essendo questa la Divina Commedia Approssimativa direi che soprassediamo e passiamo oltre, poi se finisco all’Inferno chiedo meglio a Francesca e vi dico.

Comunque, si capisce che i due si innamorano. Dante però è un gossipparo di prima categoria, e vuole a tutti i costi sapere soprattutto come e quando era scattata la scintilla:

“Noi leggiavamo un giorno per diletto 
di Lancialotto come amor lo strinse; 
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 
       Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso; 
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 
       Quando leggemmo il disiato riso 
esser basciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso, 
      la bocca mi basciò tutto tremante. 
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 
quel giorno più non vi leggemmo avante.”

Paolo tenta il cosiddetto “approccio intellettuale”: si va in un parco, toh, guarda cos’ho in tasca, il romanzo su Lancillotto e Ginevra, leggiamo qualche brano? E poi si sa come vanno queste cose, da pagina nasce pagina, qualche occhiatina furtiva, pallori improvvisi e via, una bella pomiciata da manuale con conseguente fine del pomeriggio letterario, Boccaccio likes this.

Mentre Francesca parla, Paolo piange: una scena tristerrima, alla quale Dante reagisce al suo solito modosviene finge di essere morto sperando di stendere zio Virgilio con un ceffone e potersene finalmente andar via da quel posto di merda per tornare a quella così simpatica selva oscura.

Fine del quinto canto, al prossimo girone ci saranno i golosi, Cerbero, Ciacco e tante altre riflessioni mistiche; per saperne di più sulla love story tra Paolo e Francesca invece cliccate qui.

Abbracci e “basci” virtuali a tutti, state a casa e oggi vi saluto consigliandovi il blog di Chiara Sinchetto, che propone dei percorsi letterari mirati a riscoprire noi stessi, ciò che ci emoziona, ci spaventa, ci rende felici, attraverso i libri…ne abbiamo bisogno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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